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Cucine afro-caraibiche

Alle origini del gusto: cucine afro-caraibiche tra memoria, cultura e contemporaneità

Un approfondimento sulle cucine afro-caraibiche: dalla storia legata alla diaspora alle pluralità culturali, fino all’impegno di Victoire Gouloubi per valorizzarle in Italia. Un viaggio tra piatti, identità e visioni future.

Le cucine afro-caraibiche sono il vivo e pulsante intreccio di migrazioni, resistenze e contaminazioni. Non esiste un’unica cucina africana o caraibica, così come non esiste una sola Europa gastronomica. Parlare di cucine al plurale non è solo corretto, è necessario. L’Africa è il continente più esteso e variegato del mondo, abitato da centinaia di popoli, ognuno con un’identità gastronomica specifica. I Caraibi, a loro volta, sono un mosaico culturale composto da eredità africane, influenze indigene, europee e asiatiche. Le cucine nate da questo incontro non possono essere incasellate in una categoria univoca: sono espressioni in movimento di un’eredità profonda e spesso poco approfondita.

Le radici storiche delle cucine afro-caraibiche

Per comprendere appieno il valore e la complessità delle cucine afro-caraibiche, bisogna partire da una delle pagine più oscure della storia: la tratta atlantica degli schiavi. Tra il XV e il XIX secolo, milioni di africani furono deportati dalle coste occidentali del continente verso le Americhe e i Caraibi. In questo tragitto forzato, le persone portavano con sé non solo il dolore dell’esilio, ma anche conoscenze agricole, tecniche di preparazione, ingredienti simbolici. Il mais, l’igname, l’okra, il sesamo, il sorgo, la manioca: alimenti che diventeranno centrali nelle cucine della diaspora.

Nei Caraibi, queste tradizioni africane si sono mescolate con quelle delle popolazioni autoctone e con quelle imposte dai colonizzatori europei. È così che nascono piatti come il mofongo – una preparazione a base di platano pestato, originario di Porto Rico, con un chiaro legame con il fufu dell’Africa occidentale – o come il jerk, tipico della Giamaica, in cui la tecnica Taino della cottura su legno si fonde con le spezie africane e le carni introdotte dagli europei. La zuppa joumou, consumata ad Haiti in occasione della festa dell’indipendenza, è un simbolo della liberazione dal colonialismo: un piatto che gli schiavi non potevano mangiare e che, dopo la rivoluzione, è diventato simbolo di rivendicazione culturale.

La cucina diventa così documento storico, testimonianza materiale di una memoria collettiva. È anche, in molti casi, una forma di resistenza: un modo per mantenere un legame con le origini, per affermare la propria umanità in un contesto di negazione. Da questo si comprende molto bene il fatto che la cucina non è ridotta al solo l’atto di mangiare (per nutrimento o piacere), ma anche al modo di vivere e l’unione tra passato, presente e futuro.

Perché è fondamentale parlare di cucine afro-caraibiche al plurale

Uno degli ostacoli principali alla valorizzazione delle cucine africane e caraibiche è l’utilizzo del singolare. Parlare di “cucina africana” equivale a parlare di “cucina europea”: un’espressione troppo generica, che cancella la ricchezza delle differenze. Nessuno metterebbe sullo stesso piano la cucina francese, quella italiana e quella greca, eppure questo accade spesso quando si parla di Africa o dei Caraibi. La conseguenza è una percezione superficiale e stereotipata, che impedisce una vera conoscenza.

Riconoscere le cucine africane e caraibiche al plurale significa restituire dignità alle specificità. Significa parlare di cucina senegalese, etiope, nigeriana, giamaicana, haitiana, dominicana. Significa uscire dall’esotismo per entrare nel terreno dell’identità, dell’autenticità, del riconoscimento e del rispetto. È un cambio di sguardo che coinvolge non solo il linguaggio, ma anche la narrazione, la critica gastronomica, la comunicazione culturale. È qui che la gastronomia si fa strumento di inclusione e rappresentazione.

Victoire Gouloubi: identità, voce e impegno

Tra le figure che oggi incarnano questa visione pluralista delle cucine afro-caraibiche, la chef italo-congolese Victoire Gouloubi occupa un ruolo centrale. Nata a Brazzaville, in Congo, è arrivata in Italia da giovanissima, portando con sé un bagaglio complesso fatto di memorie, sogni e anche traumi. Dopo un periodo iniziale di difficoltà, ha trovato nella cucina uno spazio di affermazione e libertà. Da allora, ha costruito un percorso professionale che unisce alta cucina e impegno sociale.

Gouloubi è stata finalista di Top Chef Italia e concorrente a Top Chef World All-Stars, ma è soprattutto attraverso il suo progetto UMA ULAFI che ha dato forma a una proposta coerente e strutturata di Afro-Gourmet. UMA ULAFI non è solo un salone gastronomico, ma un laboratorio culturale e creativo in cui la cucina si intreccia con l’arte, la storia, la formazione. Dalle cene esperienziali agli eventi corporate, fino alla pubblicazione del suo libro Siamo ingredienti, Victoire ha costruito una piattaforma attraverso cui raccontare, con linguaggio contemporaneo e identitario, il valore delle cucine africane e caraibiche nel contesto italiano ed europeo.

La sua cucina è elegante, colta, emozionale. Parla di radici ma anche di futuro. Parla alle comunità africane, afrodiscendenti, ma anche a chi è pronto a riconsiderare il proprio immaginario gastronomico. Attraverso piatti narrativi, come il pollo mafé reinterpretato con raffinatezza o le chips di platano servite come amuse-bouche, Gouloubi costruisce ponti e non nostalgie.

chef Victoire
Victoire Gouloubi chef

Un orizzonte italiano ancora da costruire

Nonostante l’impegno di figure come Gouloubi, in Italia le cucine afro-caraibiche fanno ancora fatica a trovare spazio. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, la reperibilità degli ingredienti è spesso complicata: alimenti fondamentali come l’okra, il tamarindo, il fufu o certe varietà di pepe sono difficili da trovare, soprattutto fuori dalle grandi città. Anche quando presenti, i prodotti sono spesso di scarsa qualità o non adatti a un uso professionale, ostacolando l’apertura di locali specializzati.

Un altro limite è quello legato alla narrazione: nei media, nelle guide, nella critica gastronomica, queste cucine sono quasi assenti. Se ne parla raramente, spesso in modo folkloristico o marginale, e quasi mai con gli strumenti del racconto enogastronomico autorevole. Questa invisibilità contribuisce a creare un circolo vizioso: mancando una domanda consapevole, è difficile che si sviluppi un’offerta strutturata. E viceversa.

A tutto ciò si aggiunge una questione più profonda: la mancanza di modelli e riferimenti pubblici. Le nuove generazioni afrodiscendenti in Italia faticano a trovare figure capaci di rappresentarle in modo credibile nel panorama gastronomico e di conseguenza di ispirarle. Eppure, è proprio da queste generazioni che potrebbe partire un cambiamento: sono giovani cresciuti tra culture diverse, capaci di fondere autenticità e contemporaneità, pronti a reinterpretare le proprie origini con linguaggi nuovi e contaminati.

Le possibili soluzioni ci sono. Si potrebbe partire da progetti di formazione specifici, costruire filiere di importazione più solide, promuovere eventi di divulgazione e collaborazione tra chef, artigiani e istituzioni. Ma soprattutto, occorre cambiare sguardo: smettere di considerare queste cucine come “altre” e iniziare a raccontarle per ciò che sono. Parti integranti, vive e vitali, del nostro presente gastronomico.

Caraibi a tavola: ibridazioni, sapori e potenza simbolica

Le cucine caraibiche sono un concentrato di biodiversità e memoria. Sono cucine dell’incontro, figlie della migrazione forzata e dell’adattamento, della contaminazione e della resistenza. In esse convivono spezie africane, tecniche indigene, eredità coloniali e influssi asiatici, soprattutto indiani e cinesi. La Giamaica, per esempio, è un crocevia in cui il jerk si affianca al curry goat; ad Haiti, la soupe joumou coesiste con piatti dal forte retaggio francese; a Trinidad si trovano preparazioni come il roti o il dhal puri, che raccontano la storia della diaspora indo-caraibica.

Tra i piatti più rappresentativi: l’ackee and saltfish, emblema della cucina giamaicana; il pelau di riso, fagioli e carne della tradizione trinidadiana; il pepperpot, stufato speziato e rituale, consumato a Natale in Guyana e in Belize. Ogni piatto è specchio di un’identità multipla, stratificata.

Afriche gastronomiche: una mappa in continuo movimento

Anche l’Africa è un continente di cucine, non una cucina. Nel Corno d’Africa, la base è l’injera, pane fermentato di teff che accompagna zuppe e stufati (come il doro wat) in un rituale di condivisione e gestualità. Nella regione dell’Africa occidentale, dominano il jollof rice, il fufu, le zuppe di arachidi e l’egusi (zuppa densa con semi di melone). Più a sud, in Angola o in Mozambico, le influenze portoghesi si fondono con tradizioni locali a base di manioca, cocco e peperoncino.

Al Nord, le culture berbere, arabe e mediterranee si incrociano dando vita a cucine in cui il cous cous incontra le spezie del Sahel. Ogni regione, ogni gruppo etnico, ogni villaggio, ha sviluppato tecniche specifiche, varietà autoctone di cereali, legumi, ortaggi. Ci sono fermentazioni, affumicature, metodi di conservazione ancestrali. Ci sono rituali, simboli, gerarchie legate al cibo. Le cucine africane sono dinamiche, stratificate, spesso poco documentate, ma tutt’altro che immobili.

Ecco perché è molto importante che i giovani afrodiscendenti portino i loro piatti della tradizione fuori dalle mura domestiche, che li offrano al mondo non solo per parlare delle proprie radici, ma anche per rendere contemporanee queste culture gastronomiche di immenso valore. C’è bisogno di verticalizzare le proposte e questo è un impegno che spetta a ristoratoti e imprenditori della ristorazione. Come sempre è insieme, grazie all’unione delle culture, che si portano avanti i progetti più ricchi e longevi.

di Claudia Concas

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