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Tradizione vs innovazione

Tradizione e innovazione sono davvero rivali in cucina?

La carbonara solo con il guanciale e guai a usare la panna: quanto conta la tradizione per gli italiani e che valore danno all’innovazione

“I grandi piatti della tradizione rivisitati con un tocco di innovazione”, quante volte avete letto questa frase nei vari articoli di recensione (o racconto, come mi piace specificare) dei ristoranti? Ve lo dico io, innumerevoli. L’ho scritto anche io, non lo nego. Un po’ perché fare questo lavoro significa anche accodarsi a quelli che sono i trend e un po’ perché è la frase che gli e le chef (più o meno stellati/e) pronunciano più spesso durante le interviste. Questa è una frase un po’ gigiona, come direbbe Simona Ventura, ma non la biasimo. Già, perché provate voi, in Italia, a dire carbonara vegetariana, amatriciana di tonno, ragù di lenticchie o lasagne di zucca (l’elenco potrebbe durare all’infinito), senza venire linciati. Sotto a post social di ricette “innovative” ho visto commenti che facevano rabbrividire e in alcuni casi, neanche troppo rari, sono sfociati in vere e proprie minacce.

Lavoro da tanti anni nel mondo food e tra le varie attività creo ricette con i prodotti dei miei clienti. Molto spesso, tra le linee guida che mi vengono fornite, c’è la dicitura “non ispirarsi a ricette della tradizione”. Questo perché si può postare la migliore foto del mondo, la migliore video ricetta di tutti i tempi e una versione buonissima di quel piatto, ma i commenti saranno sempre negativi e ti faranno sentire l’assassino che vuole uccidere la tradizione. Mi domando se queste persone, che non hanno altro credo al di fuori del guanciale, siano poi le stesse che chiamano sushi quello dell’all you can eat. Insomma, in Italia pare che si possa scherzare su tutto, ma guai a toccare la cucina “tradizionale”, quindi è permesso toccare le grandi ricette della tradizione solo con un piccolo, piccolissimo tocco innovativo.

La tradizione della cucina italiana: il fenomeno del podacast DOI

Quando è uscita la notizia che la cucina italiana sarebbe stata candidata dal governo italiano a patrimonio immateriale dell’Unesco (era il marzo del 2023), abbiamo fatto salti di gioia, ci siamo abbracciati, le testate non parlavano di altro. Un entusiasmo simile l’ho percepito solo quando il cielo è stato azzurro sopra Berlino, nell’estate del 2006. Attenzione, non sto dicendo che non mi abbia fatto piacere e che non riconosca il valore inestimabile della cultura gastronomica del nostro Bel Paese, anzi. Mi limito a raccontare un fatto e questo fatto è che persone con il freezer pieno di bastoncini di pesce (che sulla confezione ora hanno anche i tempi e le modalità di cottura con la friggitrice ad aria), facevano la ola perché finalmente i piatti della loro infanzia (che solo la nonna li sapeva fare così buoni, cit.), avevano finalmente trovato il giusto riconoscimento mondiale. Il punto è proprio questo, quei bastoncini di pesce sono nella nostra tradizione culinaria ed è innegabile. Li abbiamo trovati tutti nel piatto quando tornavamo a casa da scuola e ci mettevamo davanti a un episodio qualsiasi dei Simpson. E vi dirò di più, quando c’erano i bastoncini eravamo ben felici, mentre quando malauguratamente ci toccava il minestrone (fatto di verdure, legumi e cereali, ingredienti alla base della Dieta Mediterranea che a sua volta è patrimonio immateriale dell’Unesco e che viaggia a braccetto con la nostra storia gastronomica), erano dolori.

C’è dunque un po’ di confusione quando si parla di tradizione e i dubbi più grandi ce li ha messi anche il fortunato podcast DOI – Di Origine Inventata, che grazie alla conoscenza e allo studio di Alberto Grandi, il suo ideatore, ha fatto tremare gli estremisti del guanciale. Il podcast, che se state leggendo questo articolo conoscerete di sicuro, racconta con un tono anche un po’ provocatorio (cosa che fa sempre arrabbiare moltissimo quando si sostiene una teoria diversa, bisogna ammetterlo), che quella che noi consideriamo la tradizionale cucina italiana ha molti lati oscuri e che sì, mettiamocela via, la carbonara è una ricettina improvvisata che non ha che una manciata di anni. Quanti come me la amano? Bene, mi sembra di sentirvi, siamo in tanti. Ma il fatto che sia un piatto delizioso non significa che le nostre radici debbano stare ferme lì e non significa neppure che se la vostra amica Daniela dell’università, continua a metterci la pancetta e non il guanciale dobbiate toglierle l’amicizia su Facebook.

Prima di DOI, che è oggettivamente un documento molto interessante se volete saperne di più sulla gastronomia italiana, sulle sue radici e su quello che potrebbe essere il suo futuro, è uscito nel 2006 un libro molto interessante che in pochi conoscono. Si intitola Così mangiavamo – Cinquant’anni di storia italiana fra tavola e costume di Stefania Aphel Barzini (Ed. Gambero Rosso). A parte le foto di repertorio che per chi come me ama il vintage sono un balsamo per occhi e anima, il libro ripercorre la storia dell’autrice attraverso cinquant’anni di Italia che ha vissuto dopoguerra, austerity, rinascita, moda, tendenze, fenomeni. Periodi scintillanti si sono alternati, come sempre accade, a periodi molto cupi segnati da fatti di cronaca e crolli finanziari che non facevano ben sperare. La cucina, sia quella domestica che quella ristorativa, viaggia alla stessa velocità dei fatti che succedono in una nazione. Così, mentre noi usiamo il tempo per fare i gastro-fighetti lanciando illazioni contro chi mette il tofu nella parmigiana, io apro questo testo a pagina 200, capitolo anni ’80, e l’autrice mi ricorda che proprio in questo decennio tutti erano ghiotti di, cito testualmente, “una delle più orribili trovate di quegli anni”. Sta parlando dell’insalata di riso che ogni anno mi distrugge da maggio a settembre, ma che in molti amano. Chi ci mette i würstel (crudi, vi vedo), chi il mais, chi usa il basmati, chi il Carnaroli e nessuno interviene. Allora mi domando, se l’insalata di riso può essere una faccenda personale rispettabile, perché non lo può essere una carbonara? Personalmente non mangio l’insalata di riso, non per snobismo, solo perché ne sono rimasta traumatizzata in tenera età, ma mai mi sognerei di mettere alla gogna chi si ingolfa di una tradizionale insalata di riso o di una più innovativa pokè, che poi sono la stessa cosa. Interessante anche l’episodio 2 del podcast Morsi, di Margo Schachter, che prova a spiegare come sia inspiegabile l’indignazione di fronte alle scelte che ognuno fa sul proprio modo di mangiare e di godere del cibo.

Durante l’orrendo periodo del lockdown, quando abbiamo svuotato supermercati (che anche qui non mi sento di giudicare, perché chi l’aveva mai vissuta una pandemia?), mi ricordo di tutta quella pasta liscia rimasta abbandonata sugli scaffali. Vorrei scomodare un secondo i puristi e i tradizionalisti, facendo loro notare che tradizionalmente la pasta nasce liscia, ruvida e porosa. Una buona pasta liscia sì che trattiene il condimento. E vi dirò di più, mangiamo molta più pasta liscia di quello che pensiamo: farfalle, fusilli, linguine, spaghetti, orecchiette industriali, paccheri, ziti e sono certa che qualche formato mi sfugga. Ora, fate un elenco della pasta rigata che consumate a casa e confrontate i due elenchi. Tutto questo per dire che è impossibile essere fedeli sempre alla tradizione, un po’ perché molte informazioni sono inquinate e un po’ perché il gusto è una cosa abbastanza personale.

Le grandi innovazioni gastronomiche

Una tra le più grandi innovazioni gastronomiche del nostro Paese, ma non solo, è quella della ristorazione. Ad un certo punto le cose andavano meglio a livello economico e uscire a cena è diventato un momento di svago e condivisione che ha dato una nuova educazione ai nostri palati. Il mondo dei ristoranti è cresciuto in maniera esponenziale e non accenna a fermarsi. Questa è a mio avviso una delle innovazioni gastronomiche più stupefacenti di sempre: se penso che chi non può o non vuole viaggiare potrà conoscere il sapore del ramen, dell’anatra alla pechinese, del ceviche e del Pad Thai, mi vengono le lacrime agli occhi per la commozione.

Poi ci sono le innovazioni degli avanguardisti. Per restare in Italia possiamo citare Gualtiero Marchesi che ha servito il raviolo aperto o Moreno Cedroni che ha fatto il bounty di seppia o Carlo Cracco che ha unito cacao e acciughe nel risotto. Curiosità, conoscenza e un pizzico di incoscienza hanno regalato alla cucina, e di conseguenza al nostro palato, nuovi sapori e nuove tradizioni. È vero che non tutte le sere si va ad uno stellato diverso, come è vero che non mettiamo nella schiscetta dell’ufficio la cotoletta scomposta con sentori di erbe dei boschi trentini all’alba, ma bisogna ammettere che nuovi ingredienti e nuovi abbinamenti ci mettono a disposizione una varietà più ampia di sapori allargando così il ventaglio del gusto e stimolando, si spera, la nostra mente.

Ci sono altri modi di innovare in cucina e su questo mi ha fatto molto riflettere Chiara Pavan, chef del ristorante Venissa a Venezia (1 stella Michelin e 1 stella verde per la sostenibilità). Chiara Pavan è sotto i riflettori da parecchio tempo soprattutto per la sua filosofia di cucina ambientale che l’ha spinta ad eliminare la carne dal menu da oltre 4 anni e ad inserire fonti proteiche provenienti da specie invasive. Avrete sicuramente sentito parlare di lei la scorsa estate, quando si è discusso molto sui danni che il granchio blu, una delle tante specie aliene presenti nei nostri mari, sta facendo all’Adriatico. Ho intervistato Chiara Pavan diverse volte, l’ultima in occasione di un importante congresso internazionale di alta cucina. Chef Pavan mi ha illuminata quando mi ha raccontato che in questo preciso momento storico non è il momento di innovare, ma è il momento di prendersi cura. Bisogna prendersi cura del pianeta, delle risorse, delle persone e questo è un esempio virtuoso di innovazione. Innovazione significa applicare delle modifiche alle abitudini e quando si parla di cibo e di tavola, queste modifiche possono essere legate al gusto, alle esigenze economiche o di sostenibilità e anche ai trend intesi come crescita: tutti fattori che a loro modo portano un arricchimento e mai un impoverimento.

Questi sono solo alcuni degli spunti che mi fanno pensare che la tradizione esiste ed è preziosa tanto quanto l’innovazione, e che l’impasto di questi due valori temporali ci accompagna verso il futuro, faccenda che non riguarda mai solo il singolo. Amare la tradizione è possibile anche senza rifiutare innovazioni e cambiamenti.

Chiudo con una frase di Massimo Bottura, che qualche anno fa, durante uno dei suoi speech disse “la migliore cucina è quella di casa propria” e, mi permetto di aggiungere, il fatto che viviamo in un angolo di mondo decisamente fortunato da questo punto di vista, non dovrebbe farci indignare se qualcuno mette l’ananas sulla pizza o la panna nella carbonara.

di Claudia Concas

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