Negli ultimi dieci anni, la parola sostenibilità è diventata un mantello molto comodo da indossare. È nata con un’intenzione nobile: ridurre l’impatto umano su clima, ambiente e risorse naturali. Oggi è finita a decorare menu e post, svuotata e addomesticata, ridotta a slogan. Si confonde il fine con il mezzo e si scambia la buona abitudine per eroismo: come dire che mangiare il gambo del broccolo sia un gesto rivoluzionario. Ma chi l’ha mai buttato davvero, quel gambo?
Nel lessico pop della sostenibilità ci siamo dimenticati che certe pratiche – il no waste, la valorizzazione degli scarti, l’attenzione agli approvvigionamenti – sono sempre state parte integrante della cucina nell’ambito della ristorazione dove uno scarto non è un peccato etico, ma un costo vivo da evitare. I ristoranti, quelli veri e che hanno funzionato, sono stati sostenibili ben prima che lo storytelling lo certificasse. Non perché lo dichiarassero, ma perché il mestiere lo imponeva. Sostenibilità, in cucina, è sempre stata una questione di equilibrio economico, non di greenwashing. Abbiamo romanticizzato la sostenibilità (lo abbiamo fatto anche con la resilienza) e le abbiamo tolto quella dignità pragmatica che era al centro del suo vero valore.
Obiettivo reale o trend instagrammabile?
Il punto centrale oggi non è se la sostenibilità sia giusta (lo è), ma quanto sia diventata estetica e performativa. L’urgenza climatica, le crisi energetiche e alimentari, la scarsità di risorse idriche dovrebbero spingerci verso modelli radicali e consapevoli. Ma il linguaggio del food system ha scelto un’altra strada: quella della rassicurazione. Si moltiplicano le carte dei vini “green”, i menù vegetali dichiarati come “scelte etiche”, gli hashtag #zerowaste. Tutto condivisibile, ma è davvero sufficiente?
Nel 2024, secondo il Rapporto Ristorazione di Fipe-Confcommercio, oltre il 40% degli imprenditori ha effettuato investimenti destinati al rinnovamento del locale, in parte con finalità ambientali, ma spesso più come risposta a dinamiche di marketing che come spinta etica reale. La sostenibilità, insomma, vende. Ma è qui che si gioca la vera sfida perché le scelte realmente sostenibili implicano fatica, costi, incomprensioni con i clienti. La plastica compostabile costa molto più della plastica, i fornitori locali sono meno flessibili delle grandi distribuzioni e l’impianto per il recupero delle acque piovane (giusto per fare un esempio) non si ripaga in un trimestre.
Il 61% dei consumatori italiani dichiara di scegliere il ristorante anche in base alla sua impronta ambientale. Ma quanti sono disposti a pagare di più per questo? E quanti capiscono davvero cosa significhi sostenibile? Scegliere il pollo “km0” e allevato nei tempi giusti con la corretta alimentazione, non è sostenibile se ci lamentiamo del suo prezzo o se vogliamo trovarci nel piatto solo le cosce.
Esempi virtuosi: quando sostenibile va contro quello che abbiamo sempre creduto
Per capire cosa significhi sostenibilità applicata alla ristorazione bisogna guardare a chi la pratica in modo radicale, anche a costo di essere criticato.
Chiara Pavan, chef di Venissa, lavora da anni su un modello complesso e coerente di sostenibilità ambientale, agricola e culturale. La sua cucina si basa su prodotti autoctoni, coltivati nella vigna murata di Mazzorbo e sulla valorizzazione di ciò che normalmente vive in questo territorio. Ma il punto centrale è un altro: Pavan fa ricerca scientifica, collabora con biologi marini, recupera la biodiversità lagunare e lavora con il concetto di impatto. La sostenibilità qui è una strategia sistemica, non un claim. “Non serve essere vegetariani o vegani – ha dichiarato in un’intervista – serve lavorare su filiere sane, trasparenti, rispettose”.
Accanto a lei, Grow Restaurant rappresenta uno dei modelli più audaci di sostenibilità integrata. Situato nella campagna lombarda, nasce da una visione radicale: proporre una cucina etica fondata su orticoltura propria, energia rinnovabile, caccia selettiva e valorizzazione integrale della materia prima. Qui la cacciagione, solitamente considerata poco compatibile con l’approccio sostenibile, diventa invece un esempio virtuoso. Gli animali vengono prelevati esclusivamente durante le stagioni consentite, attraverso filiere controllate, e ogni parte è utilizzata: dalle carni fino alle frattaglie, con lavorazioni che comprendono fermentazioni, salamoie, insaccati, brodi. La caccia è interpretata non come consumo predatorio, ma come risposta all’eccesso faunistico che compromette gli equilibri ambientali locali. Non si tratta solo di cucinare bene, ma di pensare in modo rigenerativo, riconnettendo l’uomo al paesaggio in modo non simbolico, ma operativo.
Altro esempio lampante arriva dalla gestione delle specie invasive. Invece di demonizzarle, alcuni chef – Pavan inclusa – hanno scelto di valorizzarle a tavola: granchio blu, pesce siluro, alga wakame. Ingredienti problematici per l’ecosistema ma preziosi se inseriti in una logica gastronomica intelligente. Così la cucina si trasforma in strumento di riequilibrio ambientale e il piatto diventa un atto politico. Una cosa a cui, se vogliamo essere sostenibili, dobbiamo abituarci.
La Stella Verde: quando la sostenibilità diventa criterio di eccellenza
A raccontare cosa significhi sostenibilità in ristorazione ci prova anche la Guida Michelin, che dal 2020 assegna la cosiddetta Stella Verde. Nata per valorizzare i ristoranti più impegnati dal punto di vista ambientale e sociale, si è rapidamente imposta come nuovo oggetto del desiderio per molti chef. In un contesto in cui la stella rossa è spesso sinonimo di forma, quella verde tenta di raccontare un valore più profondo.
Nel 2025 sono 69 i ristoranti italiani insigniti di questa onorificenza. Tra questi spiccano Al Gatto Verde a Modena, laboratorio visionario sotto la guida di chef Jessica Rosval dedicato alla rigenerazione agricola, Villa Maiella in Abruzzo, con la sua autosufficienza produttiva, Locanda La Raia, pioniera nella viticoltura biodinamica, e naturalmente Venissa. Ma anche piccoli avamposti rurali che lavorano con filiere cortissime, economia circolare e rispetto integrale degli ecosistemi locali.
La Stella Verde premia non chi lo dichiara, ma chi lo pratica: agricoltura sinergica, riduzione delle emissioni, rapporti etici con i dipendenti, lotta allo spreco. Ed è proprio questo che la rende sempre più ambita. Racconta un’idea di cucina contemporanea dove la forma cede il passo alla sostanza, dove l’identità di un ristorante non si costruisce solo sull’impiattamento, ma sul pensiero dietro ogni gesto.
La vera sostenibilità è un atto umano, non un filtro verde
Sostenibilità non è un’etichetta da esibire né un gesto scontato. È una scelta difficile, a volte impopolare, che implica rinunce, visione, fatica e cambiamento di abitudini. È un percorso umano prima che ambientale, che passa dal rispetto degli ingredienti ma anche delle persone: i cuochi, i contadini, i pescatori, i lavapiatti, i trasportatori.
Chi la riduce a “niente plastica e tanti vegetali” ne fa una caricatura. Sostenibilità significa ridare valore alla materia prima, trattare con dignità gli animali, accettare il conflitto tra gusto e responsabilità, e lavorare su relazioni solide con chi rende possibile tutto questo.
Non serve più raccontarcela con le caraffe di acqua filtrata.
Serve iniziare a cambiare davvero, anche a costo di perdere consenso.
E allora, la vera domanda che dobbiamo farci è: abbiamo il coraggio di essere sostenibili anche quando non conviene?
di Claudia Concas